Taccuini del Mediterraneo   

Di là dal mare, oltre il confine, il nulla o quell’altro a venire che probabilmente Odisseo sfidò, sua ultima ed estrema impresa. Ma di qua, nell’azzurro e bianco della luce zenitale estiva, o nel grigio perlaceo della tempesta invernale, di qua il Mediterraneo invade la nostra storia dal farsi dell’intelletto umano. Il pensiero dell’uomo antico e medievale è intriso della sua salsedine, dei suoi canti, del suo lento sciabordare sulle coste iberiche o italiane, magrebine od egee. In quel sobrio mareggiare, dalla costa i presocratici contemplarono l’ultramarino con uno sguardo orizzontale, piatto, leggermente arcuato all’orizzonte, e di quel tavoliere turchese fecero inferenza di raffinatissime dialettiche, matematiche, epistemologie. Il grado di mimesi tra il pensiero occidentale ed il mare nostrum è dunque altissimo, empatico direi. Eppure, da quel sottofondo di mobilissimo ingegno è possibile oggi negare la natura stessa di una storia millenaria, ed allora il Mediterraneo, malamente antropizzato, si fa d’un tratto respingente ed ottuso. Avverso ai recenti fatti di cronaca, pensando al Mediterraneo come ad un “brodo di culture”, ci soccorre e depura una vecchia canzone di Juan Manuel Serrat quando dice: «Eres como una mujer / perfumadita de brea / que se añora y se quiere / que se conoce y se teme» (all’incirca: Sei come una donna / profumata di catrame / che si rifiuta e si ama / che si conosce e si teme). E in un attimo ecco che ritornano la poetica e l’estetica del mare fattosi carne, eucarestia naturale che smembra per ripartire, non per dividere.A queste poche coordinate sentimentali andrà legata la memoria della mostra eponima (Il Mediterraneo) presentata al Museo d’Arte Contemporanea di Gibellina. E diremo eponima non per un accidente linguistico, ma volontariamente, convinti come siamo della millenaria sedimentazione di molteplici nomi, tutti eroici, tutti divini ma al contempo ignoti, volutamente ignoti, che ne costituiscono l’essenza più profonda. Perchè il mare non sia solo (e non venga, pertanto, in tal modo ricordato o citato) biologia, politica o confine. Perchè esso sia, per definizione, «di genti diverse»,incrocio, narrazione, scambio.

Ecco: cinque artisti e le loro sette opere-taccuino affogate nel blu ultramarino di teche che sono traguardi (nel senso di "guardare attraverso"). Dall’estremamente piccolo scrutare, come dall’oblò di un battello mollemente ondeggiante, i diversi paesaggi sentimentali in lontananza, ognuno, così pensato, a cardine di una metafora più grande e significativa. Le antiche mappe di Maurizio Cosua, segnate lungo la costa come da un topografo medievale, ma interferite come dietro un tubo catodico, ad illustrare il Mediterraneo sotto la lente selettiva dell’uomo contemporaneo. Da così lontano, dall’alto come in un’aereofotogrammetria, le terre e il mare rimangono al di la del nostro sguardo, separate da una sorta di schermo protettivo che del mondo arcaico ivi rappresentato garantisca l’integrità storica e psicologica. I corpi astrali di Miquel Guillem, baricentrici e riflettenti, che sembrano misurare le lunaggioni riflesse sullo specchio dell’acqua, occhio-metafora dell’intelletto umano, poetico, misurativo del fuori e del dentro, nel suo aspirare alla contemplazione del bene oltre la sfera delle stelle fisse. Michelangelo Penso, che del paesaggio rivierasco fa architettura visionaria di megaliti vaporosi, di polluzioni, di bolle che la terra e i fondali producono ad invadere la riviera. Sovrapporsi di un’artenatura contaminatrice e metalinguistica, che sani le coste mediterranee nel possibile altrove di un’immagine sentimentale. L’onirismo di Sergio Pausig, il suo lento navigare su sciabecchi colmi di spezie odorose, di porto in porto caricando essenze come nell’attesa escatologica di un prossimo diluvio. Il suo girovagare che diventa itinerario del subconscio, in quello spazio intermedio che è il sogno notturno. Infine, il grafitismo di Antonio Recca, quasi un abecedario dell’andar per mare nei diversi dialetti mediterranei, a cui corrispondono differenti forme di vascelli e modalità di percepire il mare nella sua dimensione antropologica. Il medium scelto per allestire la mostra di Gibellina è forse il simbolo più alto e significativo della letteratura di viaggio nella seconda metà del novecento. La forma-taccuino utilizzata da Bruce Chatwin (1940-1989) nel suo lungo peregrinare.

 

      Vittorio Ugo Vicari